Volkswagen: l’Europa rimane indietro

di Raimondo Orsini

Le cronache della scorsa settimana sono state monopolizzate da caso  “dieselgate”, la truffa delle emissioni delle auto Volkswagen negli Stati Uniti, che ha aperto un varco epocale sul mondo delle performance ambientali delle auto e sulla credibilità delle strategie green delle imprese.

Senza cadere nell’autoreferenzialità, è importante ricordare che nella ricerca “Green economy e veicoli stradali”, pubblicata dalla nostra Fondazione nel 2014 (reperibile on-line su questo sito) avevamo trattato con molta preoccupazione -per l’Europa- il tema delle “Real world emissions” e la discrepanza fra le emissioni reali delle automobili e quelle omologate nei test, ed avevamo pubblicato il grafico comparativo prodotto proprio da International Council on Clean Transportation, e cioè l’istituto che ha scoperto per primo il dieselgate negli Stati Uniti.

 Potremmo dire: “L’avevamo detto noi…”, ma in realtà la situazione era così nota agli addetti ai lavori che si trattava solamente di aspettare che il vaso di Pandora venisse scoperto.

Ora che questo è accaduto, il caso VW è divenuto un simbolo, un paradigma, che secondo me disegna prospettive importanti su tre temi fondamentali:

1) Il futuro dell’industria delle auto: nonostante si stia correndo ai ripari per provare a risollevare l’immagine pulita dei motori a combustibili tradizionali, è prevedibile che le performances ambientali dei veicoli influenzeranno le scelte dei consumatori e quindi (si spera) dei gruppi industriali. Così come (purtroppo) c’è stato bisogno di Fukushima per fermare il nuovo programma nucleare italiano, forse abbiamo avuto bisogno della truffa Volkswagen perché l’opinione pubblica spinga a puntare con più forza sulle tecnologie ibride, elettriche e a gas/biometano. Con i dati OCSE che prevedono un aumento dei veicoli circolanti nel mondo del 400% entro il 2050 (con un’esplosione nelle economie emergenti, Cina, India, etc.) non possiamo permetterci di mantenere il petrolio come fonte energetica principale nei trasporti, senza avere effetti ambientali devastanti.

2) La green economy non ammette “greenwashing”: il caso VW traccia una linea netta fra le imprese che hanno compreso la svolta della “green economy” e che quindi puntano con serietà all’ecoinnovazione e a sfruttare l’onda del cambiamento modificando i processi produttivi, le abitudini e le strategie, e quelle che invece pensano che basti cambiare i contenuti della comunicazione per vendersi come “green”. Queste ultime non hanno futuro: il fuoco di paglia del green washing dura poco perché la società civile, come dimostrato dal caso VW, richiede trasparenza e serietà su un tema fondamentale come quello dell’ambiente e della salute.

3) E’ ormai evidente che l’’Europa ha bruciato negli ultimi anni il vantaggio competitivo che aveva creato in tema di sviluppo “green,” nei confronti degli Stati Uniti e delle grandi potenze mondiali. Tutta arroccata sulla propria crisi d’identità, sui rapporti di forza fra la Germania e gli altri stati e sul dibattito economico intorno all’ austerity, ha perso la bussola e non ha puntato su quel “Green new deal” che le avrebbe consentito di essere leader mondiale sulle tecnologie e lo sviluppo pulito. E’ emblematico che un recente sondaggio abbia riportato che la grande maggioranza degli americani ormai ritiene i cambiamenti climatici un tema determinante e che la candidata presidenziale Hilary Clinton abbia twittato sul caso VolksWagen: “E’ inammissibile che il profitto delle imprese sia messo prima della salute e dell’ambiente”.

Addirittura farsi bacchettare dagli americani sulla priorità ambientale rispetto al profitto delle imprese……mi sembra veramente troppo.

L’Europa ha un’occasione per rialzare la testa e ripartire verso una green economy. La saprà cogliere?

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