Rio+20: Valutazioni conclusive

 a cura di Toni Federico

Il negoziato che doveva portare al documento politico finale della Conferenza del ventennale di Rio de Janeiro, UNCSD, Rio+20, ha avuto inizio nell’autunno del 2011 con la raccolta delle proposte dei governi e della società civile, conclusa con oltre 6000 contributi consegnati al Bureau.

Vent’anni prima l’ONU aveva per tempo nominato una commissione di grandi saggi presieduta dalla Brundtland che aveva prodotto Our Common future e disegnato i documenti di Rio, i 27 Principi e Agenda 21, con i quali venne lanciato nel mondo il messaggio dello sviluppo sostenibile. Si trattava di novità alquanto esoteriche per il mondo di allora che pure hanno posto le basi di (quasi) tutti i processi multilaterali per la protezione dell’ambiente. Questa volta si è partiti dal basso, nella convinzione che la maturità degli attori sulla scena sia ormai completamente acquisita. Il Segretario e l’Assemblea Generale hanno assegnato alla Conferenza due temi, la Green economy e la governance[1] dello sviluppo sostenibile.

Che il metodo avrebbe rapidamente portato, piuttosto che alla riscrittura di nuovi principi filosofici dello sviluppo sostenibile, all’esposizione dei problemi e dei conflitti sul tavolo ed al blocco reciproco tra interessi contrapposti era un rischio calcolato. Il quadro internazionale di oggi è molto indebolito dalle crisi e con esso è divenuta più debole la visione del futuro del mondo rispetto alle cure delle gravi crisi ecologiche ed economiche sul terreno.

Le ragioni del contendere sono ben note:

il nord del mondo ha eluso l’impegno a sostenere lo sviluppo dei paesi poveri con il 7 permille del suo PIL, con l’eccezione dell’Europa del Nord ma con i casi gravissimi di elusione di USA, Giappone ed Italia;

il sud del mondo ha costituito nel ventennio il terreno di espansione della globalizzazione dei mercati. Al suo interno paesi nuovi e qualcuno vecchio hanno scalato il benessere a ritmi che ora li collocano al top dell’economia mondiale[2], altri si sono impoveriti (Europa dell’est) o hanno aggravato il loro già grave stato di povertà (Africa, Medio oriente);

i paesi di nuova economia, a cavallo tra ricchezza e povertà, vengono accusati dagli occidentali di sfuggire alle loro evidenti obbligazioni facendosi scudo del Principio di Rio delle responsabilità comuni ma differenziate, il CBDR, come già avviene nelle trattative sul clima;

le diseguaglianze di reddito, dei diritti, dell’accesso alle risorse si sono aggravate in maniera pesantissima, tra i paesi e dentro i paesi;

  lo stato dell’ambiente e degli ecosistemi continua ad deteriorarsi. La crisi climatica è gravissima. Gli obiettivi del Protocollo di Kyoto non sono stati colti;

il governo dello sviluppo sostenibile è stato palleggiato tra la debolissima Commissione CSD creata a Rio, l’UNEP, un programma privo di un ruolo adeguato, e i ministeri dell’ambiente dei vari paesi.

L’integrazione dell’ambiente con economia e società è rimasta nel mondo dei desideri. Il 10 gennaio 2012 il Bureau mette sul tavolo una sintesi di 17 pagine dal nome “The future we want”. Da allora al 19 giugno il documento ha subito una logorante interminabile negoziazione[3], affidata a funzionari governativi che non hanno fatto molto di più che contrapporre frasari diversi e opporre eccezioni fino al far lievitare il documento, all’inizio di giugno, ad oltre 80 pagine e 360 paragrafi di cui solo 70 concordati. Con un sapiente gioco delle parti il Governo brasiliano è intervenuto nella settimana che ha preceduto Rio+20 con un ascolto attento delle posizioni contrapposte ed infine tagliando corto a tutte le eccezioni. Il suo documento di compromesso di 50 pagine, blindato e senza alternative, è stato votato martedì 18 giugno dall’assemblea plenaria prima dell’arrivo dei Capi di Stato, alla condizione non dichiarata che nessuno avrebbe poi tentato di modificarlo. I conflitti sono stati eliminati passandovi al di sotto, obiettivi e tempi sono stati cancellati, la Roadmap europea della Green economy è così caduta e l’UNEP non sarà un’Agenzia indipendente. Il sentimento più diffuso tra le migliaia di delegati che hanno partecipato mercoledì all’apertura del vertice, ci riferiscono da Rio, è di disappunto per la debolezza dell’ONU e per la astuzia del Brasile. Sono però i rappresentanti dei loro paesi quelli che hanno passato sei mesi a litigare sui punti e virgola. La società civile, finalmente ammessa a pieno titolo al negoziato, denuncia che i sussidi ai combustibili fossili non verranno tagliati, gli oceani non saranno adeguatamente protetti, sulla forestazione gli impegni saranno troppo vaghi e soprattutto in nessuna parte del documento finale si parlerà delle risorse economiche necessarie e da dove ricavarle e chi le deve impegnare per sostenere lo sforzo dei paesi più poveri. Una lettura di questo tipo accompagnerà nei giorni del dopo Conferenza il prevedibile coro dei professionisti del fallimento, al quale non ci uniamo. Non bastano le lamentazioni, specie se ci si ricorda di seguire i processi che l’umanità mette in campo per una speranza di futuro con tardiva superficialità e scetticismo. Il punto sta nel valutare i passi in avanti che Rio consentirà, molti dei quali sono nella dinamica dei fatti, nella grande consapevolezza testimoniata nelle innumerevoli iniziative collaterali in campo a Rio, piuttosto che nelle parole del testo. La dicotomia nord-sud del pianeta, già messa in discussione dal processo di Durban per il clima, sarà superata dai fatti. I nuovi attori saranno diversi. Il bisogno di azione concreta per lo sviluppo sostenibile ha trovato un interprete riconosciuto nella green economy, che solo pochi mesi fa era un prodotto di laboratorio. Verrà proprio da coloro che hanno ridotto al minimo il documento di Rio sulla green economy, dai cinesi in particolare, il principale sostegno al concetto che cambiare l’economia è il passo obbligato per rilanciare economia, benessere, protezione dell’ambiente e lotta alla povertà e forse anche per ristabilire un po’ di equità nel mondo. Proprio i cinesi sono i primi nell’implementazione dei Millennium Development Goals, i MDG, che vanno a verifica nel 2015. La loro opposizione alla green economy non è quella fuori tempo della Bolivia e del Venezuela (il green capitalism), ma è autentico timore che gli occidentali vogliano usare gli standard green per condizionare i commerci e l’assistenza allo sviluppo loro e dei paesi veramente poveri e che la tecnologia verde venga venduta in cambio di materie prime, piuttosto che trasferita per aiutare lo sviluppo. Data la storia dei comportamenti occidentali siamo certi che si stia trattando solo di un atteggiamento strumentale? La green economy porta sulla scena il sistema industriale e finanziario a cui si chiede partnership, accountability e trasparenza. Le amministrazioni pubbliche ora faranno più fatica ad eludere gli impegni. Se all’Europa, protagonista sfortunata di Rio+20, si può imputare un errore, è quello di aver preteso che la sua Roadmap per la green economy potesse diventare un obbligo per tutti. A Rio l’Europa ha imparato che, se farà da sola, gli altri la seguiranno. Il sistema dell’ONU vara a Rio, per lo IFSD, il Forum ad alto livello in area ECOSOC che sarà ministeriale e che porterà finalmente a New York i ministri economici. L’UNEP sarà il riferimento rafforzato per la protezione dell’ambiente e per il coordinamento dei MEA, gli accordi multilaterali sull’ambiente, ed avrà rappresentanza universale. Non porterà più, almeno non da solo, il peso di promuovere lo sviluppo sostenibile. L’integrazione fa un (piccolo?) passo in avanti. Il linguaggio della sostenibilità è ormai solidamente penetrato nella società occidentale, bisogna però non essere così ipocriti da dimenticare che gli occidentali sono meno di un miliardo, più o meno quanto coloro che non hanno accesso all’energia ed ai servizi igienici e molti meno di quelli che fronteggiano la fame tutti i giorni, sono poveri o sono malati. I paesi ricchi, noi tra questi, sono andati a Rio+20 con la consapevolezza che il benessere non cresce più con il PIL e che nel modello di crescita occidentale si dovrà spostare l’equilibrio tra i consumi (troppi ed inutili) e gli investimenti (pochi e mai indirizzati a proteggere gli stock delle risorse naturali e dei beni comuni). Del pari si sarebbe dovuto perseguire il disaccoppiamento, l’efficienza nell’uso della materia e dell’energia secondo gli insegnamenti della scuola tedesca e dell’OECD. Finora però non ne abbiamo tratto le conseguenze. Il documento di Rio è, anche per noi, l’origine degli assi per una green economy beyond Gdp, e per il piano decennale per la produzione ed il consumo sostenibili. La previsione scura che i paesi emergenti causeranno il crash ambientale non è una scusa per l’inazione in stile nordamericano-canadese, per capirci. Dice Francesco Ferrante da Rio che da quelle parti i danni dell’inquinamento stanno diventando insostenibili, anche per motivi economici e sociali. Significativo l’allarme lanciato dall’Accademia governativa delle Scienze Sociali Cinese che ha calcolato nel 9% del PIL il danno annuale causato all’economia dal degrado dell’ambiente, o anche la stima della Banca Mondiale che per l’India i danni causati solo dall’inquinamento delle acque equivalgono al 6%del PIL. Le risposte ci sono, tanto che Lord Nicolas Stern è convinto che il piano quinquennale cinese, pur prevedendo una crescita costante del PIL del 7% l’anno, prefigura il contributo più significativo alla riduzione delle emissioni di gas di serra di questi ultimi anni.

Il documento finale di Rio+20: “The future we want”. Il gruppo dei Premi Nobel ed i membri del Panel di alto livello del Segretario Generale, prima che la Conferenza avesse inizio, avevano ricordato ai negoziatori che questa è l’epoca in cui l’umanità è diventata il fattore dominante del cambiamento ecosistemico sulla terra, chiedendo loro il riconoscimento del fatto che tutte le azioni devono ora essere giudicate per la capacità di dare un contributo alla creazione di una civiltà che sia capace di progredire restando al di qua dei limiti operativi sicuri per l’umanità definiti da quelle che vanno sotto il nome di planet boundaries, i confini sociali ed ecologici. Naturalmente, se ciò è vero, tutti ci rendiamo conto che occorre una transizione grande e senza precedenti dall’attuale ad un nuovo modello di sviluppo, capace di integrare le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile, considerate non isolatamente, ma come una sorta di indissolubile tripla elica. Stiamo entrando in un futuro non troppo lontano in cui gli stress ecologici porteranno sfide profonde alle nostre istituzioni politiche, paradossalmente le stesse che nel corso degli ultimi venti anni non hanno saputo dimostrare di essere all’altezza del compito. Sia nel contesto dello sviluppo sostenibile che delle politiche di contrasto al cambiamento del clima, queste istituzioni hanno accumulato sfiducia e pessimismo, che sono in sé una fonte di rischio. Tutto questo può aiutare a spiegare lo strano scollamento tra le valutazioni della Conferenza di Rio+20 che vengono dalla società civile e le sensazioni di molti dei delegati governativi. Da parte di questi ultimi c’è un profondo interesse nel preservare l’integrità del metodo degli accordi multilaterali, accompagnato però dalla consapevolezza che le istituzioni internazionali sono state danneggiati dalla loro stessa incapacità di produrre soluzioni tempestive, di reagire efficacemente ai dati scientifici più recenti e di affrontare realtà nuove senza più possibilità di affidarsi a soluzioni vecchie. “The Future we choose” è una breve dichiarazione dei premi Nobel, dei cosiddetti “Anziani” e dei componenti del Secretary-General’s High Level Panel resa di pubblico dominio alla vigilia della Conferenza che il Comitato Scientifico della Fondazione per lo sviluppo sostenibile ritiene di sottoscrivere pienamente. (> leggi la dichiarazione) Vi si parla della necessità di un approccio scientifico integrato allo sviluppo sostenibile e si invoca la mobilitazione collegiale dei settori pubblico e privato e della società civile. La Dichiarazione afferma tra le altre cose: “Tale modello integrato, accompagnato dal consenso scientifico e guidato dai principi di responsabilità e di equità deve saper fornire una soluzione ecosistemica che assicuri una saggia gestione del pianeta e dei suoi abitanti”. Non è più possibile che il concetto di confini planetari, sviluppato dal Centro studi per la resilienza degli ecosistemi di Stoccolma possa essere escluso dalla discussione, nonostante gli appelli pressanti rivolti all’assemblea di Rio+20 da parte dei Major Group e in particolare dei giovani. Le stesse discussioni dei delegati sulla green economy, argomento che riteniamo essere stato il vero tema della Conferenza, non sono state che un pallido riflesso del fervore che circola nel mondo e che ha dato luogo proprio a Rio ad infiniti eventi di discussione appassionata e di livello sempre elevato, alla ricerca di una nuova economia politica globale per lo sviluppo sostenibile che porrebbe la green economy al centro dei processi decisionali macroeconomici in un momento nel quale occorre un’innovazione reale per rispondere alle crisi sistemiche causate dai modelli di crescita tradizionali. Ad unire il pensiero delle delegazioni e le convinzioni della società civile c’è stata a Rio la presa di coscienza che i governi da soli non sono in grado di perseguire lo sviluppo sostenibile. Nel testo finale di Rio+20 viene infatti riconosciuto un ruolo negoziale rafforzato ad un ampio movimento globale per la sostenibilità, compresa la società civile. Il Panel di alto livello del Segretario Generale dichiara: “In questa epoca, c’è un rischio inaccettabile che le pressioni antropiche sul pianeta, se si continuerà a seguire il percorso del business as usual, inneschino cambiamenti bruschi e irreversibili, con conseguenze catastrofiche per le società umane e la vita come noi la conosciamo”. Questo tipo di dichiarazioni ha accomunato, con sfumature non troppo diverse, tutti i Major Group rappresentati a Rio e le moltitudini che si sono date convegno a Rio per creare un vero festival di iniziative, come ha riconosciuto il Segretario generale nell’assemblea di chiusura di venerdì. Il senso di urgenza e la tensione morale di queste prese di posizione sono serviti per sottolineare la grande distanza che si è aperta tra le pratiche dello sviluppo sostenibile sul terreno e la capacità dei negoziatori multilaterali di offrire loro riferimento e guida. Le valutazioni a caldo dell’esito di Rio+20 non hanno risparmiato critiche al testo negoziato, “The future we want”. È la stessa risposta che registrammo con le prime valutazioni del Vertice sulla Terra del 1992. Ad esse fece seguito un giudizio più meditato che riconosceva ai leader del mondo di aver colto lo spirito del tempo e di aver saputo cambiare il linguaggio stesso dello sviluppo. In tutta onestà, a noi che abbiamo seguito giorno per giorno il negoziato di Rio+20 e ne abbiamo tradotto il contenuto parola per parola, non sembra che il basso profilo di questo documento possa, con l’impeto del 1992, convincerci di avere in mano una nuova agenda capace di guidarci verso lo sviluppo sostenibile in un mondo che nei venti anni è completamente cambiato. La parte piena del bicchiere mezzo vuoto raccomanda attenzione al periodo tra oggi e il 2013, quando avrà luogo tra l’altro, la revisione finale degli Obiettivi di sviluppo del Millennio cui dovrebbe fare seguito il lancio della transizione mediante i nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG). Il Summit di Rio si è svolto con il presidente degli Stati Uniti, il primattore del piccolo Accordo di Copenhagen, immerso nello scontro elettorale e con l’Europa nel pieno di una crisi della moneta unica senza precedenti. Altri leader mondiali di primo piano sono restati lontano dai negoziati per altre varie questioni. Queste circostanze spiegano alcuni accadimenti, per primo il congelamento del testo del governo brasiliano, probabilmente nella convinzione che la scarsità delle presenze in Assemblea dei leader mondiali non avrebbe comunque consentito concessioni ulteriori o aggiunte. In queste circostanze, i padroni di casa brasiliani, prima di bloccare il testo, avevano intrapreso una strategia di ascolto intensivo delle posizioni delle delegazioni facendo efficacemente emergere le cosiddette linee rosse con lo scopo dichiarato di non incappare in violazioni di rappresentanza, cioè in articolazioni del testo che le varie capitali non avrebbero potuto accettare. Alla fine il testo non avrebbe in nessun modo potuto essere quello che chiamiamo un testo ambizioso o un testo capace di proiettarsi coraggiosamente nel futuro. Che da negoziare a Rio ci fosse poco è testimoniato dalla delegazione degli Stati Uniti, una di quelle che mettevano in premessa che non ci sarebbe stato denaro nuovo sul tavolo, mentre l’Europa, il donatore ODA per eccellenza, stava chiedendo aiuti economici ed investimenti al G20 di Los Cabos, pochi giorni prima, agli stessi paesi cui a Rio avrebbe dovuto offrire nuovi finanziamenti. Il quadro istituzionale per lo sviluppo sostenibile (IFSD). Ci sono due risultati principali nel capitolo IFSD: la decisione di istituire un forum politico universale intergovernativo ad alto livello per sostituire eventualmente la CSD e il rafforzamento dell’UNEP. Il negoziato sul forum si è incentrato sulle funzioni piuttosto che su una formula organizzativa ben definita. Si tratta di fornire una leadership politica, un orientamento e le raccomandazioni per lo sviluppo sostenibile. L’assetto finale sarà determinato mediante un processo di negoziazione intergovernativo, trasparente e compreso sotto il controllo dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in vista della convocazione nella prima sessione, all’inizio della 68° sessione. Le prospettive di successo di questa decisione dipenderanno dalla capacità di leadership delle Nazioni Unite per cambiare il modesto linguaggio del testo negoziato in una agenda orientata all’azione. Un problema che probabilmente si discuterà alla 67° sessione della Assemblea Generale è l’annosa questione del rafforzamento e della riforma dell’UNEP. Il documento finale approva la universalizzazione del Consiglio direttivo e il potenziamento del finanziamento. Tuttavia, la Unione Europea e un certo numero di Paesi africani continuano a mantenere vivo il loro progetto di trasformare l’UNEP in una Agenzia specializzata (UNEO) nella convinzione che ciò potrebbe potenziare il pilastro ambientale rispetto alle dimensioni sociali ed economiche dello sviluppo. A nessuno sfugge però che si tratta sostanzialmente di equilibri interni all’organizzazione dell’ONU. Gli Stati Uniti non condividono l’entusiasmo europeo per la riforma, ed anzi ritengono l’assetto attuale anche troppo generoso per l’UNEP. Così gli europei gli altri sostenitori della riforma avranno il loro bel daffare per convincere gli altri dei vantaggi di un UNEP trasformato. Strumenti di attuazione e finanziamento (MOI). È stata di gran lunga la questione più delicata e controversa. I paesi occidentali, che con poche eccezioni in Europa del Nord, si sono ben guardati dall’onorare l’impegno di Rio 1992 per il 7 permille di aiuti ufficiali allo sviluppo, ora dichiarano di non aver più soldi (incredibili gli USA, i peggiori tra gli evasori ODA, che si premurano di dichiarare dietro le quinte, che comunque vada, soldi non ce ne sono più – con buona pace di Rio e del Monterrey Consensus) a Rio+20 e a Los Cabos si davano d’attorno per chiedere aiuti alle economie emergenti. Con queste premesse, ottenere dalla Cina concessioni sulla green economy non poteva che essere un’impresa disperata. A un certo punto, in quella che si rivelò poi essere un gesto breve durata, i G-77/Cina hanno abbandonato il negoziato sulla green economy dichiarandosi del tutto insoddisfatti per la mancanza di progressi sui MOI. Le proposte di contributi finanziari in centinaia di miliardi di dollari fino ed oltre il 2018 sono state ritirate dal tavolo dopo che Stati Uniti, Canada, Giappone, Australia, Nuova Zelanda e altri 20 paesi avevano dichiarato che Rio+20 non poteva essere una conferenza dei donatori. Seguendo le voci che circolavano al di fuori dei negoziati, il testo finale riconosce anche che risorse aggiuntive per i MOI avrebbero potuto venire da transazioni Sud- Sud. Il negoziato alla fine ripiega sul linguaggio del JPOI 2002, vista l’incapacità di andare avanti sulle questioni del trasferimento tecnologico come i diritti di proprietà intellettuale e l’accordo TRIPS che attualmente li regola in sede WTO. Il testo finale comprende un accordo per avviare un processo intergovernativo nell’ambito dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per proporre opzioni su strategie efficaci di finanziamento dello sviluppo sostenibile, e per richiedere alle agenzie competenti delle Nazioni Unite di identificare un meccanismo di agevolazione che promuove lo sviluppo, il trasferimento e la diffusione di tecnologie pulite nel rispetto dell’ambiente. In materia di commercio internazionale, le linee rosse riguardavano la liberalizzazione degli scambi dei beni e dei servizi ambientali e sull’impegno a intraprendere azioni contro le distorsioni di mercato provocate dai sussidi, non hanno avuto spazio in paragrafi separati del testo, ma sono stati annotati come questioni importanti che devono essere affrontate. La maggior parte delle proposizioni sul commercio sono state eliminate con un tratto di penna da parte del facilitatore PrepCom, che ha aggirato ogni contenzioso ed ha trasferito i sussidi in un paragrafo nella sottosezione sul consumo e la produzione sostenibili. La Green economy: A ben vedere la green economy è quel passo in avanti che ci aspettavamo da Rio+20, pur con tutte le frustrazioni che ciascuno può avere dopo aver letto il testo del documento finale. Prima di Rio la green economy era un progetto dell’UNEP per coniugare l’esigenza di una nuova economia, a fronte dei fallimenti dell’economia corrente in tutto il mondo, con la protezione degli ecosistemi e la lotta alla povertà già peraltro incardinata nel sistema ONU con gli MDG. (> vedi la collezione dei documenti ONU sulla green economy) Sposata con entusiasmo dall’OECD e da almeno parte dei suoi paesi membri, non è affatto scontato che la green economy dovesse essere una proposta gradita a tutti e condivisa. La stessa scelta della green economy come uno dei temi chiave della Conferenza UNCSD, un successo indubbio dei promotori, e tra essi dell’UNEP alla ricerca di visibilità, non poteva essere una garanzia di successo. E così infatti è stato: la formula dell’economia green nel contesto dello sviluppo sostenibile e dell’eliminazione della povertà ha incontrato una dura resistenza da parte dei G-77/Cina. Gli oppositori della green economy hanno largamente usato a Rio+20 l’argomentazione che la green economy sarebbe un travisamento dei principi e dagli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Quest‘ultimo ha così ricevuto il cadeaux di un inaspettato rilancio da parte di ambienti non poi così tradizionalmente favorevoli. La Bolivia, tra gli oppositori più aspri, riassume le ragioni dell’opposizione, affermando che nessun modello di sviluppo unico qualunque sia il suo colore dovrebbe essere imposto, e che i diritti degli Stati in via di sviluppo per perseguire i loro propri percorsi di sviluppo devono essere rispettati. Al di là della controversa reputazione di quel paese, ora, che lo si voglia o no, rappresentativo di una corrente di pensiero autorevole e diffusa in Sud America, l’argomentazione è difficilmente controvertibile ed è per di più ampiamente sufficiente a togliere dal tavolo la proposta di una Roadmap europea con impegni e scadenze obbligatori per tutti. Alla fine il testo del documento concordato a Rio proclama un’ovvietà: i paesi che vogliono affrontare la strada della green economy come uno sforzo comune (common undertaking) sono liberi di farlo. Sarà questa la strada o il mancato accordo finirà per costituire un alibi per l’inazione? Gli osservatori si sono affrettati a notare, tuttavia, che i dirigenti di Stato e i ministri dei vari paesi del G-77/Cina, intervenendo alla sessione plenaria erano apertamente fuori linea e facevano continui riferimenti alla green economy. Chi è attento alle vicende cinesi ed indiane sa che i loro piani e programmi più recenti contengono molti degli spunti dell’economia verde e che quei paesi sanno bene di essere sotto attacco dei cambiamenti climatici, dell’inquinamento, della perdita di biodiversità etc. e che i loro commerci stanno già traendo grande beneficio dalle tecnologie verdi, vento, sole, riciclo, etc. Ne concludiamo che, nel rispetto delle priorità nazionali, la green economy come noi la intendiamo è ormai una via obbligata e condivisa. Senza impegni per gli aiuti allo sviluppo, per il riconoscimento anche in economia del Principio di Rio sulle responsabilità comuni ma differenziate, senza una politica chiara e leale in materia di trasferimento di tecnologie e di protezione dei diritti di proprietà intellettuale e dei brevetti, la posizione dei G-77/Cina non daranno strada al progetto della green economy che, pur praticandola, accuseranno di green washing e di copertura della politica di rapina da essi imputata all’occidente. Negli incontri di Rio circolava con insistenza l’esempio dell’aiuto all’Africa per i farmaci anti-AIDS. Ora la salute è entrata nei documenti dello sviluppo sostenibile, ma se c’è chi muore e chi si cura si può parlare di rispetto dei Principi di Rio? Il risultato di questi conflitti insanabili ha portato il governo brasiliano alla scrittura di un testo molto difensivo e totalmente qualitativo nella sezione del documento dedicato alla green economy. La UE, l’OECD e l’UNEP possono godere di un successo solo parziale consistente nel porre la green economy al primo posto nell’ordine del giorno delle trattative planetarie. In questo mood l’UNEP ha commentato dopo la Conferenza che l’Agenda della green economy è ancora in gran parte sul tavolo. Un risultato di vasta portata strategica è il riconoscimento della necessità di nuove e più ampie misure di progresso per integrare il PIL per orientare meglio le decisioni politiche. Questa apertura equivale ad una piccola compensazione rispetto ai continui riferimenti alla crescita economica in tutto il testo negoziato, dal momento che i nuovi indicatori inizierebbero a misurare i costi ambientali e sociali del benessere materiale e a promuovere le idee emergenti sul vivere bene e su modelli alternativi di prosperità. Il testo adotta anche il quadro decennale (10YFP) dei programmi sul consumo e la produzione sostenibili, già a suo tempo richiesto nel JPOI, e introduce anche i reporting di sostenibilità da parte aziendale. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs). L’accordo sul processo per sviluppare gli SDGs universali è uno delle più importanti decisioni politiche della Conferenza, data la sua centralità nel contribuire a definire il programma post-2015. Basato su un testo di compromesso brasiliano, il documento è una specie di tentativo di tranquillizzare l’UE sul fatto che il processo dovrebbe essere guidato dai dati scientifici e i G-77/Cina sul diritto degli esperti governativi di partecipare alla elaborazione degli SDG. L’UE non ha avuto successo nella sua richiesta che le decisioni della Conferenza andassero oltre i problemi procedurali, per effetto della resistenza deiG-77/Cina ad intraprendere una riflessione più approfondita dei temi e delle scadenze per gli SDG. Taluni sostengono che la speranza è che una sessione speciale del l’Assemblea Generale nel settembre 2013 possa gestire un tranquillo passaggio del testimone, con una transizione senza traumi dalla revisione finale degli MDG all’adozione degli SDG. Tuttavia non sarà facile trovare una soluzione che sia al contempo universale e in grado di superare la sensibilità estreme di paesi e regioni che sono in punti molto diversi della scala dello sviluppo. Si va dai pittoreschi Boliviani (ma il Che Guevara?)che propongono una molteplicità di modelli di sviluppo in un contesto radicalmente post-coloniale per arrivare a ciò che viene considerato come un’alternativa monoculturale che ha origine nelle capitali dei principali paesi sviluppati, che vengono accusati di preoccuparsi della sicurezza di Hollywood piuttosto che del mondo intero e di voler garantire il consumo insostenibile e gli stili di vita delle celebrità. Al centro della disputa sugli SDG c’è un problema che è diventato via via più esplicito nel corso dei negoziati Rio +20: la qualità del dibattito e la misura in cui il documento finale si sarebbe informato ai risultati scientifici. Il processo degli SDG sarà una misura del successo dei prestigiosi sponsor, tra cui gli Anziani, i Nobel e il Panel ad alto livello sulla sostenibilità globale del Segretario generale, che hanno perorato la tesi che una migliore interfaccia tra scienza e politica è parte indispensabile della soluzione per migliorare la qualità dei negoziati multilaterali e dei relativi risultati. Oceani. Citato come uno dei successi, l’accordo sulla protezione degli ecosistemi marini al di fuori delle acque internazionali (BBNJ) è stato rinviato a due anni per prendere una decisione in merito allo sviluppo di uno strumento internazionale sotto la Convenzione UNCLOS. Tuttavia, i delegati hanno riferito che le conversazioni in Rio erano state utili. Il risultato, tuttavia, non è il messaggio forte che molti volevano. Nonostante questa delusione, un certo numero di NGO ha accolto con favore gli altri paragrafi in materia di pesca e della sicurezza alimentare giudicandoli molto positivi. Impegni volontari. Rio+20 non va letta solo attraverso il testo del suo risultato negoziale. Infatti gli organizzatori della conferenza e lo stesso documento finale, riconoscono che i governi da soli non possono assicurare lo sviluppo sostenibile.

A Riocentro e in tutta Rio durante la settimana, lo sviluppo sostenibile è stato il protagonista di una infinità di attività collaterali ed ha coinvolto decine di migliaia di partecipanti. Molti dei leader sostenitori della sostenibilità a livello mondiale hanno trascorso la maggior parte, se non tutto il loro tempo, a organizzare e intervenire in importanti eventi collaterali. Accordi volontari sono stati stipulati da governi, NGO e Major group, tra cui 500 tra aziende e università. I governi sono coinvolti in 50 degli 692 impegni, per solo il 7% dei totali. Ma la domanda generalizzata riguarda la misura in cui questo approccio bottom-up può assicurare le azioni necessarie per affrontare le gravi crisi di sostenibilità individuate dalla comunità scientifica. Multilateralismo. La decisione del paese ospitante di intervenire prima della Conferenza e avviare le consultazioni informali preventive è stata senza dubbio dovuta al fatto che, seguendo una opinione diffusa tra le delegazioni, un prolungamento degli intensi e poco produttivi negoziati non avrebbe verosimilmente dato luogo ad un documento migliore. Il paese ospitante era profondamente preoccupato per perdita di fiducia nella capacità del processo multilaterale di affrontare efficacemente le problematiche dello sviluppo sostenibile nel caso che non si fosse riusciti a concordare un documento. Il Brasile voleva preservare l’eredità di Rio e preservare la fiducia nel multilateralismo stesso che, per il Brasile e molti altri, è uno strumento importante per governare l’ambiente internazionale.

Il Brasile in nessun caso poteva permettersi di iniziare con un fallimento la sua lunga stagione di appuntamenti internazionali, fondamentale per il suo commercio e il suo stesso sviluppo.

[1] Processi individuati dalle sigle GESDPE, Green Economy for Sustainable Development and Poverty Eradication e IFSD, Istitutional Framework For Sustainable Development

[2] Parliamo certamente dei BRIICS e dei paesi petroliferi

[3] La Fondazione per lo Sviluppo sostenibile ha garantito la resocontazione giorno per giorno del negoziato per mezzo del suo Comitato scientifico, per sostenere la gracile discussione sui temi di Rio+20 da parte delle istituzioni e della società civile italiane. La trovate alla pagina http://www.comitatoscientifico.org/temi%20SD/Rio+20/index.htm .

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