La crisi, il cambiamento e la green economy

di Edo Ronchi

1. La Grande Recessione del 2008-2009 è stata innescata dall’esplosione di alcune bolle speculative finanziarie.

Nella crisi finanziaria vi sono state responsabilità accertate sia di singoli speculatori che hanno ingannato i mercati e i risparmiatori, sia di grandi imprese finanziarie e di credito, fondate su castelli di strumenti finanziari effimeri e a volte vuoti, che hanno reso milionari i loro manager, ma che poi sono crollate miseramente, sia di un sistema di regole e controlli del tutto inadeguato a fronteggiare le dinamiche della globalizzazione dei mercati finanziari.

Nel settore finanziario vi sono state indubbie e gravi responsabilità per l’innesco di questa recessione. Quello finanziario però è, appunto, un settore dell’economia, che condivide i difetti dell’intero sistema economico: dell’economia della corsa sempre più veloce alla crescita dei fatturati e dei consumi, del credito facile e dell’indebitamento; del benessere ridotto all’aumento quantitativo dei consumi; dell’ insofferenza verso regole e limitazioni. Non dimentichiamo che le speculazioni finanziarie sono state un motore della crescita di un certo sistema economico. Hanno, infatti, reso disponibile una massa enorme di liquidità e prodotto e distribuito rendite rilevanti. L’innesco della crisi finanziaria ha provocato lo scoppio di una recessione economica, così ampia e profonda, perché ha agito in un sistema economico del quale il sistema finanziario è una parte organica e perché il sistema economico è di una grande fragilità. Con meno soldi disponibili e con maggiore difficoltà di accesso al credito, si comprano meno auto. Ma quanto poteva ancora crescere la produzione di automobili, con un mercato in gran parte di sostituzione delle auto circolanti, con nuove auto sempre più grosse, con sempre più SUV, sempre più costose e ad alti consumi, in città congestionate e inquinate dal traffico? Oppure: è ovvio che con meno soldi si comprano anche meno case, ma si poteva pensare che i prezzi delle case continuassero a crescere oltre ogni ragionevole livello, ovunque, perfino a prescindere dal fatto che, in molte zone, molte case restassero vuote e il territorio fosse saturo per un’eccessiva proliferazione insediativa? E ancora: come mai sono calati in modo così consistente tutti i consumi, anche quelli di chi dispone di un reddito medio-alto?La riduzione del reddito disponibile e dell’aspettativa di un suo futuro aumento, hanno come effetto un calo, più accentuato e prolungato, del consumo di beni superflui o, comunque, ritenuti poco utili. Fondare la crescita su tali tipi di consumi (di bassa qualità, di basso valore aggiunto, spesso superflui) costituisce un fattore di fragilità economica: dopo che il consumatore ha ridotto tali tipi di consumo, non è detto che li riprenda appena disponga di reddito spendibile.

2. Partendo da presupposti culturali spesso diversi, si va affermando una convinzione: per avviare uno sviluppo durevole è oggi necessario puntare su uno sviluppo ecologicamente sostenibile. Per una ragione fondamentale: le risorse ambientali sono diventate scarse. La scarsità delle risorse ambientali, che ha già un impatto economico rilevante, è diventata un fattore decisivo per le possibilità di sviluppo futuro. Per risorse ambientali si intendono sia i beni e i servizi forniti dai sistemi naturali (materie prime, terre coltivabili e pascoli, acqua pulita, pesca, ecc), sia la capacità di carico e di resilienza degli ecosistemi(di sostenere e assorbire inquinamenti e rifiuti prodotti dalle attività umane). La scarsità ambientale è un prodotto di diversi fattori. La popolazione mondiale,che era un miliardo e mezzo all’inizio del 1900, in poco più di un solo secolo ha quasi raggiunto i sette miliardi. Da qualche anno i tassi di crescita demografica stanno rallentando, ma per un po’ di anni, la popolazione mondiale crescerà ancora: fino a circa 9 miliardi, poi si stabilizzerà e comincerà, forse, a diminuire. Nonostante il progresso tecnologico, la globalizzazione di modelli di produzione e di consumo di massa, ben più dell’aumento della popolazione, ha prodotto una pressione ambientale insostenibile per il Pianeta. Risorse naturali importanti – dal petrolio ai terreni coltivabili, dalla pesca alla disponibilità di acqua in diverse aree del Pianta – sono diventate scarse. Sono in corso gravi crisi ambientali: la scomparsa di specie e di habitat naturali, la crescente diffusione di inquinanti che si accumulano nell’ambiente, fino alla crisi climatica, causata da un fortissimo aumento delle emissioni di gas di serra (la loro concentrazione in atmosfera, da un valore di circa 280 ppm dell’era preindustriale, è arrivata agli attuali 383 ppm, il più alto valore osservato negli ultimi 650 mila anni). Un inverno più freddo non cambia la gravità del riscaldamento globale della Terra che non comporta che la temperatura cresca sempre, omogeneamente e costantemente, ovunque. E’ la temperatura media globale della Terra che sta crescendo, da oltre un secolo. Nelle ultime tre estati lo scioglimento di una parte di quella che era una calotta glaciale permanente del Polo Nord ha consentito, per un breve periodo, ciò che non era mai accaduto a memoria d’uomo: la navigazione diretta, attraverso il mitico passaggio a Nordovest, dall’Atlantico al Pacifico. “Cambiare il clima della Terra – scrivono Flavin e Engelman in State of the World del 2009 – è come far salpare un enorme mercantile: occorre una smisurata quantità di energia per farlo muovere e inizialmente il suo avanzamento è pressoché impercettibile, ma una volta avviato a tutta velocità è molto difficile fermarlo”. La crisi climatica ha già impatti economici rilevanti: si pensi ai danni e ai costi della crescita di frequenza e di intensità degli eventi atmosferici estremi, oppure alla riduzione della produzione agricola in alcune regioni per i periodi prolungati di siccità. Sottovalutare la crisi climatica e le misure che essa rende necessarie, sarebbe un grave errore anche economico. Le trattative internazionali per giungere ad un accordo globale, sono molto difficili, come abbiamo visto anche alla Conferenza mondiale di Copenhagen del dicembre scorso. Ma, in ogni caso, i Paesi e le imprese che hanno puntato su produzioni di beni e servizi amici del clima, a basse o nulle emissioni di gas di serra, non stanno certo fermi in attesa del nuovo trattato internazionale post Kyoto, ma sono in piena attività: la crisi climatica è reale e rilevante e sta già promuovendo nuove produzioni e nuovi consumi. La Grande Recessione del 2008-2009, dopo decenni di continua crescita,ha causato anche un contenimento globale delle emissioni di gas di serra. Anche in Italia, nel 2009, il calo di tali emissioni è stato molto consistente, di oltre 35 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti: una riduzione di circa il 3% sotto i livelli del 1990. Si può ormai dire che l’Italia raggiungerà, e probabilmente supererà, l’obiettivo del Protocollo di Kyoto di riduzione del 6,5% delle proprie emissioni di gas di serra, entro il 2012. La riduzione delle emissioni di gas di serra nel 2009 non è dovuta solo alla crisi: la produzione di elettricità da fonti rinnovabili, per esempio, nel 2009 è aumentata del 13% rispetto all’anno precedente (il solare del 400%, l’eolico del 35%, le biomasse del 10% e l’idroelettrico del 13%). La quota del consumo interno lordo di elettricità coperta con fonti rinnovabili è passata dal 16,5% nel 2008 al 20% nel 2009. La tendenza a ridurre l’impegno per l’ambiente durante le crisi economiche non vale più; anzi stiamo riscontrando esattamente il contrario: in questa crisi le misure per l’ambiente sono aumentate. La green economy potrebbe essere una via maestra per una soluzione duratura per alcune delle problematiche acutizzate dalla crisi. La Francia, per esempio, durante la recessione, ha approvato la legge, n. 967 del 3 agosto 2009 (per l’attuazione della Grenelle de l’Environnement) con lo scopo di promuovere “un nuovo modello di sviluppo sostenibile”, che al comma 1 dell’art.2 recita “La lotta contro il cambiamento climatico è la priorità assoluta”, e contiene poi una numerosa serie di misure per sviluppare le energie rinnovabili e ridurre i consumi di energia in particolare negli edifici sia in quelli nuovi che in quelli esistenti. E come la Francia hanno fatto molti altri Paesi. L’impegno per lo sviluppo delle rinnovabili in Europa, per esempio, è cresciuto anche nel 2009 ed ha riguardato ben il 61% della capacità elettrica aggiuntiva installata, con un aumento, sull’anno precedente, del 39% dell’eolico e del 16% del solare. La Spagna nel 2009 ha installato ben 2.459 Mw di eolico, la Germania 1.917 Mw e anche l’Italia ha superato la potenza installata dell’anno precedente con ben 1.114 Mw di turbine eoliche installate nel 2009. L’elenco delle misure, con doppio beneficio ambientale ed economico, e dei Paesi che le hanno promosse sarebbe lungo. Ricordo solo che alla fine del 2008 è stato lanciato da parte dell’UNEP, e ripreso da diversi governi europei e dal Presidente Obama, quello che è stato chiamato “Global green New Deal”: l’idea di un nuovo patto per lo sviluppo verde come risposta, congiunta, alle crisi economica e climatica. Non si tratta più solo di un’industria attenta all’ambiente, rispettosa della normativa ambientale vigente. Si parla ormai di “green economy”, come orizzonte per recuperare competitività economica, e di industria verde come nuovo settore trainante.

3. I consumi di elettricità, in passato, sono costantemente cresciuti, in genere più del pil. Nel 2009 in Italia l’elettricità richiesta in rete è calata del 6,7% rispetto al 2008: non si ricorda in passato un simile calo, maggiore di quello del pil, calato del 5%. Ai cali dei consumi di energia in fonti primarie siamo più abituati: sono accaduti anche in passato, sono costanti in Italia dal 2005. Ma al calo dei consumi di energia elettrica non siamo affatto abituati: la penetrazione elettrica è costantemente cresciuta e, anche se è aumenta l’efficienza energetica di alcuni usi finali, ha fatto crescere i consumi di elettricità. Terna ha presentato, nell’ottobre scorso, l’aggiornamento della previsione di base dell’energia elettrica richiesta in rete nel prossimo decennio a 360 Twh nel 2019, riducendo in maniera consistente la previsione dell’anno precedente. Terna ha presentato anche un’altra previsione più alta, chiamata ”di sviluppo”, che considera sia un tale improbabile incremento del pil, sia un tale altrettanto sproporzionato aumento di Kwh per unità di pil, da dover essere considerata una mera ipotesi accademica. Anzi la stessa previsione di base di Terna, di 360 Twh al 2019, è, probabilmente, sovrastimata: è piuttosto elevata la probabilità che non si torni ai livelli dei consumi elettrici del 2007, di circa 340 TWh , prima del 2020 (Anche noi abbiamo dovuto aggiornare le stime che, solo poco più di un anno fa,ci portavano a prevedere una richiesta in rete di 365 Twh al 2020). Come mai? Perché alcune produzione ad alti consumi di elettricità, colpite dalla crisi, o non riprenderanno o riprenderanno molto lentamente e perché alcuni consumi di elettricità, rivisti per la crisi, non è detto che vengano poi ripetuti (ad esempio gli elettrodomestici a bassa efficienza si vendono pochissimo, quasi tutti chiedono solo quelli ad alta efficienza). Visto che se ci sarà di nuovo una crescita del pil, sarà lenta per un po’ di anni, visto che il consumo di elettricità per unità di pil, dopo anni di crescita, tende a diminuire, nel settore elettrico si rendono necessari cambiamenti piuttosto radicali. Teniamo pure per buone le previsioni, probabilmente sovrastimate, di Terna, di una richiesta di energia elettrica in rete di 360 Twh nel 2019. Per le fonti energetiche rinnovabili è vigente una direttiva che ci obbliga, fatti i conti sui potenziali per il calore e i biocarburanti, a consumare oltre 100 Twh di elettricità da FER entro il 2020 (nello studio della Fondazione tale potenziale era stimato a 107 Twh al 2020). Anche supponendo di azzerare le importazioni di elettricità non da FER (ipotesi improbabile, visto che anche nel 2009, in piena crisi, le importazioni di elettricità sono aumentate), resterebbero da produrre solo altri 260 Twh. Nel 2007 abbiamo prodotto 265 Twh con le centrali termoelettriche esistenti: già più di quelli che ci servirebbero nel 2020. Senza contare che vi sono 5.232 Mw di nuove centrali convenzionali in costruzione, più 1.198 Mw di nuove centrali sempre convenzionali, a combustibili fossili, già autorizzate, ma non ancora in costruzione (siamo, quindi, già ben oltre la sostituzione di vecchie centrali dismesse).Vi sono, infine, in valutazione 14 progetti di rinnovi e potenziamenti di centrali convenzionali già esistenti, nonché, sempre in valutazione, vi sono altri 41 progetti di nuove centrali a combustibili fossili. Tutto ciò è accompagnato da impegni e investimenti per lo sviluppo di infrastrutture per il gas. Come pare evidente, questa crisi e gli effetti, non solo di breve termine, che ha prodotto, richiederà di rivedere scelte e investimenti rilevanti, già avviati o previsti nel settore elettrico. E’ possibile che il nuovo scenario elettrico venga utilizzato per frenare lo sviluppo delle rinnovabili per produrre elettricità perché sono sostitutive di produzione di elettricità da centrali a combustibili fossili: possibilità che va attentamente monitorata anche perché ci porterebbe a violare la direttiva europea sullo sviluppo delle FER. Anche a prescindere da ogni altra considerazione sulla sicurezza e sui costi, dopo questa crisi, date le centrali elettriche esistenti, quelle in costruzione, quelle già autorizzate e quelle con progetti già definiti e finanziati in fase di autorizzazione, pare proprio che non vi sia spazio, al 2020 e anche dopo, almeno per qualche anno, per  la produzione aggiuntiva di una consistente quantità di energia elettrica proveniente da nuove grandi centrali, comprese quelle nucleari. E se quella nucleare dovesse essere solo sostitutiva di energia elettrica già prodotta da altri impianti esistenti, potrebbe portare allo stop dello sviluppo delle rinnovabili e/o alla chiusura di impianti, ancora efficienti, a gas.

4. Continuare a scommettere su una crescita veloce potrebbe rivelarsi un terribile azzardo anche economico. Così come continuare a credere che il benessere possa venire solo da elevati tassi di crescita del pil. Nel febbraio 2008, il Presidente della Repubblica francese, Nicholas Sarkozy, ha incaricato due premi Nobel, Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jan Paul Fitoussi, di realizzare uno studio sul carattere riduttivo degli attuali parametri di valutazione della crescita del pil, come indicatori di benessere. La Commissione ha lavorato e prodotto un Rapporto, nel quale la Commissione scrive ”In questi tempi di crisi, quando si sente la necessità di nuove narrazioni politiche per identificare dove dovrebbero andare le nostre società , il rapporto propone uno spostamento dell’attenzione da un sistema orientato alla produzione ad uno focalizzato sul benessere “… proponendo anche un’interpretazione delle attese e aspirazioni, largamente presenti fra i cittadini nelle nostre società industriali mature, verso un’economia più orientata al benessere, alla qualità e meno, o comunque non in modo così unilaterale come in passato, al consumismo ed alla corsa alla crescita economica qualunque”. Partendo dal fatto che negli anni 2004-2007, sembrava che fosse in atto una “brillante performance” di crescita economica, quando invece si preparava la crisi futura, questa ricerca affronta il nodo del come sia possibile assicurare uno sviluppo durevole nel tempo, giungendo alla seguente conclusione: “La possibilità che gli attuali livelli del benessere siano sostenibili nel corso del tempo dipende dalla condizione per cui gli stock dei capitali che contano per le nostre vite (naturale, fisico, umano e sociale) potranno essere trasferiti alle generazioni future. “E in particolare la sostenibilità ecologica è diventata una “preoccupazione centrale” perché “pone la sfida di definire se, almeno, l’attuale livello di benessere potrà essere mantenuto nelle future generazioni”. Cominciano ad essere diffusi forti dubbi sul fatto che l’aumento del benessere sia prodotto dalla corsa al consumo. La corsa a prodotti “meno costosi” ha fatto crescere i consumi, ma ne ha, per buona parte, ridotto la qualità, diffondendo prodotti più scadenti, di breve durata e bassa qualità. Questa corsa all’acquisto di più prodotti meno costosi e di minore qualità, ha messo in crisi molte produzioni nazionali e spinto verso le importazioni di prodotti dalla Cina e da altri Paesi di nuova industrializzazioni, in grado di produrre a costi minori, con minori tutele per il lavoro e per l’ambiente. Così il consumismo a basso costo ha reso, probabilmente, più scadenti le nostre vite e, certamente, più fragile la nostra economia. “Al termine di una lunga inchiesta sulla recessione il New York Times, conclude: anche se si moltiplicano i segnali che la Grande Recessione allenta la sua morsa sull’economia, la ripresa sarà debole perché la resistenza a spendere continuerà. Il paragone è con la Grande Depressione degli anni Trenta: anch’essa segnò una lunga ritirata dei modelli di vita consumistici, l’emergere di una nuova frugalità, l’esaltazione della virtù austera del risparmio. Non è più soltanto un fenomeno economico, ma un ribaltamento di valori, un cambiamento culturale. L’inversione di tendenza rispetto ai decenni di euforia consumistica. Una retromarcia favorita dal fatto che vi si adeguano anche i ceti più abbienti,quelli che storicamente fanno tendenza perché i loro stili di vita diventano i modelli da imitare, così scrive Federico Rampini nel suo recente libro “Slow Economy”. E’ difficile capire, nella riscoperta di una maggiore sobrietà dei consumatori, quanto sia presente una nuova consapevolezza e quanto, invece, vi sia solo il dover fare di necessità, virtù. Fatto sta, in ogni caso, che questa maggiore sobrietà dei consumatori c’è e che, prevedibilmente, non durerà poco. E’ possibile valorizzare una maggiore sobrietà dei consumi e degli stili di vita come fattore positivo, di innovazione e di sviluppo di una nuova economia? Anziché puntare sul “sempre di più a costi sempre minori”, si potrebbe puntare sul “meno ma meglio”, sulla migliore qualità? Gli esempi della fattibilità di una tale prospettiva non mancano. Per esempio: il successo del vino italiano. Oggi se ne produce e se ne consuma di meno che in passato, ma è più buono e si vende ad un prezzo maggiore. Il consumo responsabile ed ecologico, il risparmio energetico, l’uso di energie e di risorse rinnovabili, il riciclo: comportamenti usuali e ben visibili nei Paesi del Nord Europa da diversi anni, si vanno ora estendendo e rappresentano una parte di crescente importanza anche per i mercati. I cambiamenti economici richiedono impegno , non sono passeggiate e non consentono a tutti di essere vincitori, ma, solitamente, premiano gli innovatori. Il cambiamento, sollecitato da questa crisi, verso una nuova economia, più stabile, più sobria ed ecologicamente più sostenibile, offre anche grandi possibilità di sviluppo di nuove attività, di imprese e di occupazione. Le offre a chi le sa vedere e cogliere.

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