Cosa dobbiamo fare per contribuire al successo della COP 26

di Edo Ronchi

dal blog HuffingtonPost

L’Accordo di Parigi per il clima si basa sugli impegni nazionali di riduzione delle emissioni di gas serra, NDC (Nationally Determined Contributions: indica l’obiettivo di stare ben al di sotto dei 2°C e di fare il possibile per non superare 1,5°C e affida ai singoli Paesi le misure che, sommate, dovrebbero raggiungere globalmente questo target.

Le COP, compresa la COP 26 di Glasgow, dopo tale accordo, servono sostanzialmente a verificare in che misura i vari Paesi, con i loro impegni nazionali di riduzione, siano o meno in traiettoria col target e a sollecitare, nel caso in cui tali impegni siano insufficienti, un loro rafforzamento che, in ogni caso, non si fa in sede multilaterale, ma sempre a livello nazionale.

Gli impegni dichiarati alla vigilia della COP 26 per essere in traiettoria con l’Accordo di Parigi dovrebbero comportare una riduzione delle emissioni di gas serra intorno al 45% entro il 2030, invece le lascerebbero aumentare di circa il 16%, facendo così superare l’aumento di 1,5°C e, a più lungo termine porterebbero a un aumento globale delle temperature ben oltre i 2°C, almeno a circa 2,7°C. Per tenere ancora a portata di mano l’obiettivo di 1,5°, come ha ribadito il G20 a Presidenza Draghi, servirebbe un aumento dell’impegno di riduzione dei gas serra, piuttosto consistente, al 2030.

I summit multilaterali possono essere utili: contribuiscono a mantenere viva l’attenzione dei media e dei cittadini, tengono aperti canali di confronto sempre necessari e, qualche volta, raggiungono anche qualche altro risultato. Pensare, o far credere, che un summit internazionale possa realizzare una transizione globale – economica, di modelli energetici, di sviluppo e di benessere – come quella necessaria per raggiungere la neutralità climatica, non è solo illusorio, ma pericoloso perché semina delusione e disimpegno.

Transizioni di questa portata non possono essere realizzate contemporaneamente ovunque: partono da qualche Paese, da gruppi di Paesi, da aree e settori e poi, se hanno successo, si possono estendere.  L’affermazione “o avviene ovunque o non serve perché la crisi climatica è globale” dovrebbe fare i conti anche con la sua conseguenza logica: siccome ovunque, contemporaneamente, non può avvenire, la transizione alla neutralità climatica non sarebbe realizzabile.

Quindi stiamo fermi e non cerchiamo nemmeno di provare a impedire che la catastrofe climatica arrivi rapidamente e sia la peggiore possibile? Senza ignorare il fatto che il rinvio alla responsabilità globale è spesso invocata  da  chi ha interesse – e non mancano interessi consistenti che ruotano interno all’economia basata sui combustibili fossili – a frenare la decarbonizzazione, visto che ormai non può più sostenere le tesi negazioniste della crisi climatica.

Chi ha alle spalle un minimo di impegno per l’ambiente sa che la responsabilità è un prerequisito imprescindibile: non aspetto che tutti smettano di buttare la plastica a mare perché se lo faccio solo io non risolvo il problema; io non la butto e mi batto perché il mio Paese faccia la sua parte per contrastare questo inquinamento. Ogni emissione di gas serra contribuisce al riscaldamento globale, ogni riduzione contribuisce a ridurne l’impatto. Facendo un bilancio dei costi e dei benefici – quelli collettivi, di una società, di un’economia, di un Paese, non di alcuni singoli interessi, anche rilevanti e legittimi, ma particolari – è ormai agevole dimostrare che, data la gravità delle conseguenze già verificabili della grande crisi climatica e date le capacità – economiche, tecnologiche e operative – ormai disponibili, è più conveniente agire ora, anche unilateralmente, per avviare una effettiva decarbonizzazione della nostra economia e puntare, realisticamente, a portarla a termine in pochi decenni.

Si tratta di una transizione certamente molto impegnativa, di una sfida di vasta portata. I pericoli e i rischi del non fare sono comunque ben maggiori. Certo che occorre fare anche il possibile per smuovere i ritardatari, guidati dalla superpotenza cinese, per frenare il loro dumping ambientale anche con misure di aggiustamento fiscale alle frontiere. Senza dimenticare alcuni fattori che giocano a loro svantaggio: anche loro devono rispondere ai loro cittadini colpiti dalle conseguenze sempre più gravi della crisi climatica e, prima o poi, dovranno agire per contribuire a contrastarla in modo efficace e più ritardano più dovranno faticare per decarbonizzare  in tempi stretti; la decarbonizzazione è una strada obbligata che attiva un percorso di innovazione tecnologica e dei modelli economici: chi parte prima si aggiudica vantaggi competitivi, chi ritarda  accumula svantaggi competitivi per le economie del  futuro.

Che dobbiamo fare quindi per contribuire al successo della COP 26? Non dimenticare che nel 2021 le nostre emissioni stanno aumentando in modo consistente, del 6%, che il nostro consumo di combustibili fossili è in crescita e che la crescita annua delle nostre rinnovabili è del tutto insufficiente e che deve  aumentare di 8/9 volte per rispettare l’Accordo di Parigi e i target europei. Dobbiamo migliorare il nostro impegno sia nazionale, sia europeo per il clima.

Quello nazionale approvando anche in Italia una legge per la protezione del clima  che aggiorni i nostri target nazionali  ai nuovi target europei  e li renda legalmente vincolanti, li sostenga con misure idonee per raggiungerli nei vari settori, integrando le misure previste da PNRR, coinvolga in modo attivo  le Regioni e i Comuni nel percorso di decarbonizzazione, riveda e ricollochi, con gradualità e compensazioni sociali, i consistenti incentivi che continuiamo a pagare per l’uso di combustibili fossili e integri nella riforma fiscale misure di carbon tax, nei settori non regolati a livello europeo, senza aumentare il carico fiscale, ma alleggerendo quello sul lavoro e incentivando gli investimenti verso la neutralità climatica. A livello europeo sostenendo e rafforzando, e non ostacolando, il pacchetto di misure “Fit for 55”, necessario per allineare con l’Accordo di Parigi l’Unione europea, con una riduzione più incisiva delle sue emissioni al 2030.

 


Articolo originale pubblicato su Huffington Post Blog in data 05/11/2021
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