Ancora lunga e difficile la strada verso lo sviluppo sostenibile

di Fabrizio Vigni

L’Italia si colloca al 35° posto nella graduatoria mondiale degli indici di sviluppo sostenibile. E’ quanto emerge dal Rapporto SDG Index & Dashboard realizzato da “Sustainable development solution network” – la rete globale di centri di ricerca, università ed esperti coordinata da Jeffrey Sachs e creata per sostenere il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile definiti dall’ONU  – e dalla Fondazione tedesca Bertelsmann Stiftung.

Quasi un anno fa, nell’ottobre del 2015, in uno storico vertice i leader di 193 paesi membri dell’ONU si erano impegnati su un’agenda globale di obiettivi da raggiungere entro il 2030. Obiettivi ambiziosi, che chiamano tutti i paesi a perseguire uno sviluppo sostenibile in grado di combinare sviluppo economico, inclusione sociale e sostenibilità ambientale, attraverso azioni a livello locale, nazionale e internazionale.

Il rapporto, presentato il 20 luglio a New York e consegnato al presidente dell’ONU Ban Ki-Moon, consente ora di avere una prima fotografia della situazione globale e, al tempo stesso, di ciascuno dei 149 paesi presi in esame, attraverso una serie di indicatori relativi ai 17 obiettivi definiti dalle Nazioni Unite: lotta alla povertà e alla malnutrizione, salute, istruzione, parità di genere, acqua, energia, lavoro e sviluppo economico, innovazione industriale e infrastrutture, riduzione delle disuguaglianze, città sostenibili, consumi e produzioni responsabili, azioni per il clima, tutela degli ecosistemi, pace e giustizia, cooperazione internazionale.

E’ una fotografia, quella evidenziata dal rapporto, che ci dice quanto lunga e difficile sia la strada ancora da percorrere. Ad oggi nessun paese ha raggiunto gli obiettivi prefissati, neppure quei paesi del Nord Europa che risultano in testa alla classifica con i migliori risultati. La graduatoria, che consente una comparazione lungo una scala che va da 0 a 100 (dove 100 indica il raggiungimento degli obiettivi definiti dall’ONU), vede ai primi quattro posti la Svezia, la Danimarca, la Norvegia e la Finlandia. L’Europa appare, per così dire, il continente più sostenibile, e nonostante la crisi che la attanaglia sembra rimanere il modello sociale ed economico più virtuoso. I primi 12 paesi della classifica sono infatti tutti europei. Tra quelli non europei il migliore risulta il Canada (13°) seguito dal Giappone (18°), dall’Australia (20°) e dagli USA (25°). La Russia (47°), la Cina (76°) e l’India (110°) sono ancora in forte ritardo.

Le sfide principali da affrontare per i paesi più sviluppati che fanno parte dell’OCSE rimangono la riduzione delle disuguaglianze, la sostenibilità delle produzioni e dei consumi, le azioni per il clima, la protezione degli ecosistemi. Non è una sorpresa: si può essere paesi ricchi ma con livelli significativi di disuguaglianza e di insostenibilità ambientale. I paesi più poveri si trovano nella parte più bassa della graduatoria: povertà, malnutrizione, accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria rimangono problemi drammaticamente urgenti in diverse parti del pianeta, e in particolare nell’Africa sub sahariana. In diversi paesi del Centro e del Sud America si concentrano livelli di estrema disuguaglianza sociale e di criminalità diffusa, mentre grazie al loro forte recente sviluppo economico diversi paesi asiatici hanno fatto molti passi in avanti, ma hanno ancora forti ritardi in particolare nell’assistenza sanitaria e nell’accesso all’istruzione.

E l’Italia?

Il nostro paese, come si diceva, si colloca al 35° posto, una delle posizioni peggiori tra i paesi dell’Unione Europea e al di sotto della media OCSE, con un punteggio di 70,9 su 100. Mentre raggiungiamo risultati eccellenti in alcuni settori, ad esempio quelli che riguardano la sanità e le aspettativa di vita (secondi dopo il Giappone nell’area OCSE), a preoccupare maggiormente sono i dati relativi ai tassi di occupazione ed ai giovani senza lavoro (il 27,7% né lavora né segue corsi di istruzione), al tasso di crescita economica ed alla competitività, alla bassa percentuale di laureati e di ricercatori. Quanto alle performance ambientali (misurate peraltro con un insieme di indicatori che appare insufficiente a descrivere compiutamente la situazione) per l’Italia viene sostanzialmente confermata la posizione che già risultava dall’Enviromental Performances Index e che vedeva il nostro paese al 29° posto su 180 paesi, una posizione che ci pone peraltro davanti alla Germania.

Ed a proposito di altri rapporti relativi alla misurazione dello sviluppo globale, vale la pena di segnalare che nell’Human Development Index del 2014 l’Italia risultava 27° (su 188 paesi) e la  stessa posizione (27° su 149) aveva nel 2015 per quanto riguarda il prodotto interno lordo pro capite. Risultati assai peggiori per l’Italia sono evidenziati dal recente Global Competitiveness Index relativamente agli indicatori di competitività (43° su 140). Una collocazione più o meno simile – che sembra confermare quel sentimento di diffusa insoddisfazione ed insieme di scarsa autostima che caratterizza il nostro paese –  è evidenziata dal rapporto Subjective Wellbeing 2015, che per quanto riguarda il cosiddetto “benessere soggettivo” vede l’Italia solo al 47° posto su 140 paesi esaminati.

Per concludere. Il rapporto SDG Index & Dashboard, come evidenziato dagli stessi autori, ha indubbiamente dei limiti. Nei prossimi anni si dovrà mettere a punto un sistema di indicatori più ricco e dettagliato, ampliando la base dei dati disponibili, in grado di misurare anche le dinamiche di evoluzione per ciascun paese e di evidenziare i progressi su scala regionale e globale. Esso tuttavia offre un primo, utile e prezioso quadro conoscitivo globale di riferimento. Ci dice quanto lunga sia ancora la strada da percorrere per raggiungere entro il 2030 gli obiettivi fissati dalle Nazioni Unite. E soprattutto sollecita i governi, il mondo delle imprese e la società civile a fare di più. Quelli da raggiungere non sono certo obiettivi facili, sottolinea il rapporto: non ci arriveremo mai secondo una logica business as usual. Sono obiettivi che richiedono un nuovo orientamento dei governi e profondi mutamenti strategici.

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