Un green New Deal ben piantato sul suolo

a cura di Anna Pacilli

Il consumo di suolo è un tema tanto strategico per il nostro Paese quanto sottovalutato e marginale. Riesce a conquistare gli onori della cronaca solo in occasione di disastri e tragedie o, qualche volta, per effetto di iniziative istituzionali, come è stato per il ddl licenziato a giugno di quest’anno dal Consiglio dei ministri, che trattiamo più avanti. Eppure il tema dell’occupazione selvaggia di suolo libero dovrebbe interessarci molto, considerando le sue pesanti implicazioni e ricadute ambientali, economiche e sociali.

I residenti in Italia non sono aumentati di molto nell’ultimo mezzo secolo: eravamo 50 milioni secondo il censimento del 1961, oggi siamo meno di 60 milioni. In compenso, il consumo di suolo è più che raddoppiato: nel 1956 ogni italiano occupava 170 metri quadrati all’anno di aree libere, spesso agricole, mentre oggi il ritmo ha raggiunto i 343 metri quadrati secondo gli ultimi dati dell’Ispra pubblicati nel 2013.
Una crescita frutto di quel modello conosciuto come sprawl urbano, cioè la dispersione insediativa frammentata e disordinata sul territorio che sta impoverendo il nostro Paese, a causa del quale ogni cinque mesi viene cementificata una superficie pari a quella del comune di Napoli. E’ una delle tante classifiche che l’Italia scala al rovescio, balzando in testa per quota di territorio a copertura artificiale: il 7,3 per cento della superficie totale, contro il 4,3 per cento della media Ue23.
“Un uso del territorio non sostenibile o errato sottrae territori ad altri usi e vocazioni, depaupera le valenze paesaggistiche, riduce il radicamento culturale delle persone rispetto ai luoghi di vita, limita l’accessibilità individuale ai servizi, incide negativamente sulla complessiva qualità della vita dei cittadini – è scritto nel Rapporto 2013 sulla green economy “Un green New deal per l’Italia”, curato dalla Fondazione e dall’Enea (Edizioni Ambiente) – Nel momento in cui il Paese si interroga sul modello di sviluppo da adottare per il futuro, è importante che si operi una scelta chiara anche per limitare il consumo del suolo”.
E’ un modello da ripensare radicalmente, che come scrive l’Istat genera “forti diseconomie complessive ed effetti distorsivi di varia natura (erogazione di servizi degli enti locali, alterazione dei prezzi del mercato immobiliare, sottrazione di spazi destinati ad altri usi, ecc.)”, alimentando anche rischiose competizioni sull’uso del suolo.
Certamente lo sprawl non è un fenomeno solo italiano, avendo permeato tutta l’Europa, ma con differenze sostanziali, per esempio nei paesi del centro-nord. In particolare in Germania, dove a frenare il consumo di suolo ci hanno pensato già a partire dal 1985. E’ del 1998 la scelta di Angela Merkel, allora ministro dell’ambiente del governo democristiano-liberale di Helmut Kohl, di promuovere una politica ambientale di disaccoppiamento definitivo dello sviluppo economico dal consumo di suolo. Lo ha raccontato Georg Joseph Frisch con il saggio del 2005 “30 ettari al giorno, le politiche di contenimento delle aree urbane in Germania”, ricordando che risale appunto al 1998  l’adozione del provvedimento che fissa a un massimo di 30 ettari al giorno il consumo di aree libere per edificazioni e infrastrutture al 2020. In più, nel 2001 un organismo governativo ha chiesto di ridurre l’obiettivo dei 30 ettari al 2020 e di stabilire consumo di suolo zero al 2050, così come raccomanda l’Europa. C’è da dire che l’obiettivo è ancora lontano dall’essere raggiunto, ma il tema è nell’agenda politica a tutti i livelli di governo, centrale e locale, e le misure finora adottate in Germania hanno comunque contribuito a rallentare il fenomeno.
Altre esperienze significative riguardano Gran Bretagna e Olanda. Nella prima, dal 2004 è previsto che il 60% delle nuove urbanizzazioni si realizzi in aree dismesse, con attenzione a tutelare le zone agricole, grazie per esempio alle green belt, aree verdi intorno alla città per limitarne l’espansione. Analogamente, dal 2007 in Olanda almeno il 40% delle nuove costruzioni deve essere realizzato in aree già urbanizzate, con zone inedificabili dedicate solo a spazi agricoli e naturali.
Scelte di politica ambientale certamente non semplici da attuare, ma ineludibili. Altrimenti, le conseguenze sono quelle che vediamo nel nostro Paese, dove lo sprawl urbano causa impatti a tutti i livelli, incluse le condizioni materiali di vita dei cittadini. Un modello insostenibile basato su interessi forti e consolidati, che poggiano sulla speculazione edilizia e sulla rendita fondiaria, che negli ultimi anni è cresciuta e poi è andata in crisi insieme alla rendita finanziaria, nella subalternità e/o complicità delle classi dirigenti. E mai si troverà una soluzione, ripetono da anni illustri urbanisti, se prima non verrà separata la proprietà dei suoli dai diritti edificatori, che devono essere governati dalla pianificazione pubblica. Basti dire che per i costruttori è sufficiente vendere un solo appartamento su tre per avere forti margini di guadagno. A tutto questo si lega un altro tema che accenniamo soltanto: la necessità di mettere mano a una nuova legge urbanistica nazionale, sapendo che quella vigente risale al 1942. Ma sapendo anche che quelle proposte negli ultimi decenni erano tali da convincere i più accorti a tenere in vita e a difendere con decisione la vecchia legge.
Intanto il consumo di suolo è volato, insieme alla cementificazione selvaggia, contemporaneamente all’aggravarsi dell’emergenza abitativa, al degrado e all’inquinamento. Quanto basta per dire che un green New Deal che parte anche dalle città, mentre promuove le buone pratiche, non può non porsi il problema di rimediare a questo male, come raccomanda anche l’Europa. Ha provato ad affrontarlo il provvedimento dell’ex ministro dell’agricoltura Mario Catania sul contenimento del consumo di suolo agricolo, che ha avuto il merito di riaccendere i riflettori. Lo hanno seguito più di recente alcuni disegni di legge preparati da gruppi politici, associazioni ambientaliste, soggetti come eddyburg.it e, infine, il ddl licenziato dal Consiglio dei ministri il 15 giugno di quest’anno, riconoscendo di fatto che il consumo di suolo è ormai una vera emergenza e va affrontato con determinazione.
Per questo il Consiglio nazionale della green economy, invitato dal ministro dell’Ambiente Andrea Orlando a discutere del tema in relazione a quanto previsto dal ddl, ha portato il suo contributo. La considerazione di partenza delle osservazioni proposte dal Consiglio nazionale è che il contenimento del consumo di suolo va perseguito subito e con norme immediatamente vigenti, quali una legge statale che consideri la salvaguardia del suolo non urbanizzato (compreso quello agricolo) come parte della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema. Coerentemente è stato proposto, a proposito del ddl, che la moratoria per tre anni del consumo di suolo nella norma transitoria all’articolo 9 consenta una deroga soltanto per gli interventi già autorizzati, escludendo invece quelli “previsti dagli strumenti urbanistici vigenti”. Contemporaneamente, il contenimento del consumo di suolo va incluso fra le linee fondamentali per l’assetto del territorio, alle quali adeguare le norme regionali in materia (lo sta facendo per prima, in modo convincente, la Regione Toscana). Insieme a questo, il Consiglio nazionale della green economy ha suggerito, fra l’altro, di porre come principi fondanti recupero, riqualificazione e rigenerazione delle aree urbanizzate e del patrimonio abitativo esistente. E di consentire l’uso di aree libere solo dopo avere dimostrato l’impossibilità di riuso e riorganizzazione di insediamenti e infrastrutture esistenti. Un’altra fondamentale misura per disincentivare il consumo di aree libere, sostenuta dal ministro Orlando, è negare la possibilità per i Comuni, come accaduto finora, di usare gli oneri derivanti dalle trasformazioni urbanistiche per la spesa corrente e quindi fare cassa.
Queste indicazioni sono riprese nel documento “Le infrastrutture verdi e i servizi ecosistemici in Italia come strumento per le politiche ambientali e la green economy: potenzialità, criticità e proposte”, presentato dalla Fondazione come contributo alla Conferenza nazionale “La Natura dell’Italia. Biodiversità e Aree protette: la green economy per il rilancio del Paese”, promossa dal Ministero dell’Ambiente.
In conclusione, serve un’inversione completa di rotta se davvero si vuole fermare il consumo di suolo. In questo modo troverebbe uno sbocco anche la crisi che attraversa il comparto dell’edilizia. Come in alcune occasioni dichiara anche l’Ance (Associazione nazionale costruttori edili), è finito il tempo dell’espansione ed è arrivato quello della riqualificazione. Avendo davanti a sé una prateria sconfinata, a leggere i dati del 2012 del Cresme. Il Centro ricerche, infatti, ha calcolato che circa l’80% delle abitazioni è in edifici costruiti oltre 40 anni fa, mentre fra 10 anni lo sarà l’85%: quindi, con un enorme potenziale di intervento sul tessuto urbano per riusi, riqualificazioni energetiche e di messa in sicurezza sismica, idrogeologica, eccetera.

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