Gestire l’Accordo di Parigi

di Edo Ronchi

L'Accordo di Parigi segna un cambio di passo globale nel far fronte alla crisi climatica.

 

Infatti:

187 governi di altrettanti Paesi, compresi tutti i grandi emettitori di gas serra, Cina in testa, hanno dichiarato necessari rilevanti impegni di riduzione – e impegnative politiche di adattamento – e hanno dichiarato impegni nazionali di riduzione, stipulando un patto per verificare periodicamente e globalmente questi impegni;

hanno affermato un obbiettivo più ambizioso di quello annunciato come prevalente alla vigilia, introducendo la necessità di stare molto al di sotto dei 2°C e di fare ogni sforzo per non aumentare la temperatura media globale rispetto all’era preindustriale di più di 1,5°C;

l’accordo entrerà in vigore, e sarà valido per tutti i Paesi che hanno aderito alla Convenzione quadro del 1992 (quasi tutti, Stati Uniti e Cina compresi), quando sarà sottoscritto da almeno 55 Paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni mondiali di gas serra: quorum che sarà prevedibilmente raggiunto e darà ulteriore forza politica a questo accordo.

Il processo globale messo in moto da queste tre importanti novità avrà rilevanti impatti sugli investimenti mondali nelle fonti fossili (è prevedibile, e previsto, un calo di quelli nel petrolio e nel carbone); innescherà un assai probabile ulteriore balzo di quelli nelle rinnovabili, nel risparmio energetico, nella mobilità sostenibile e un generale maggiore impegno nell’eco-innovazione. Questo processo mondiale, come previsto (e ormai auspicato?) anche dall’OCSE e dall’IEA, porterà all’estensione di forme di carbon pricing a nuovi settori e nuovi Paesi. L’insieme di questi fattori farà crescere, con buona probabilità, la competitività della green economy, la sua forza di sviluppo e di penetrazione, con effetti potenzialmente moltiplicatori.

Ma come affrontare i punti deboli (gli strumenti per raggiungere gli obiettivi), o rinviati dall’Accordo di Parigi a verifiche successive (impegni nazionali di riduzione delle emissioni più consistenti e corrispondenti al target di 1,5°C)?

Visto che è ufficialmente riconosciuto che gli attuali impegni nazionali dichiarati dai 187 Paesi per il 2025 e il 2030, sono un passo importante, ma non sono sufficienti per stabilizzare l’aumento delle temperatura a 1,5°C – porterebbero invece ad un aumento medio della temperatura, con buona probabilità, ben oltre i 2°C – sarebbe bene non perdere la spinta positiva verso una low carbon economy alimentata dall’Accordo di Parigi, impegnandosi da subito per migliorarli e per attivare politiche e misure più efficaci da parte dei Governi, ma anche dalle amministrazioni regionali, locali e dalle imprese. Così da arrivare alla prima verifica dell’Accordo – quella prevista con la rendicontazione del 2018 – con numeri più sostenibili e in modo che alla COP di revisione – prevista un po’ troppo avanti, nel 2023 – la situazione non sia compromessa e l’obiettivo del contenimento dell’aumento della temperatura media entro 1,5°C, sia ancora possibile.

E anche l’Europa e l’Italia dovrebbero fare la loro parte sulla via del miglioramento dei rispettivi impegni per il nuovo target di 1,5°C. L’Europa migliorando i target al 2030 delle rinnovabili e dell’efficienza energetica e l’Italia migliorando la strumentazione e le sue politiche per la mitigazione climatica.

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